Quando al Ministro Farini venne conferito l’ònere di contrastare il brigantaggio meridionale, ”Che paesi sono questi di Molise e di Terra di lavoro? – riferì a Cavour, una volta conosciuto il Campobassano -. Questa è Africa. I beduini, a confronto di questi cafoni, sono fiori di virtù civile”.

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Le ribellioni locali erano state sobillate dai Borboni; e la atria di Cuoco era stata travolta dalle sommosse dei contadini e dalla irruzione di uomini armati, comandati da Ufficiali del Regno di Napoli che – in molti casi – ripristinarono l’antica Autorità. I contadini difendevano i propri elementari interessi economici; ma, più tardi, rivendicarono politiche che rivelarono un’inaspettata fedeltà alla vecchia corona spagnola. Nel 1861, tra Abruzzo, Molise e Sannio, operavano 54 bande per complessivi 216 uomini. Agivano al confine con lo Stato pontificio, nell’entroterra irpino e nel Salernitano, ma altre ancora erano attive in Puglia, in Calabria e nel Napoletano. Il fenomeno era talmente accentuato che, prima di arrivare, il generale Cialdini pubblicò un bando:”Fucilerò tutti i paesani che piglio armati”, volendo significare che la pena di morte avrebbe colpito chiunque fosse stato sorpreso, “con parole, con denaro o con altri mezzi, ad eccitare i villici ad insorgere”, o coloro che, “con parole o con atti, avessero insultato lo stemma del Savoia, il ritratto del Re o la bandiera nazionale”. Ma, nonostante la minaccia, le bande proliferavano. Uno dei primi “capi”, Luigi Alonsi di Sora, detto “Chiavone”, si proponeva un programma “minimo”:“Cacciare il Re piemontese, marciare su Torino e restaurare Francesco II al posto di V.Emanuele II”. Il soprannome gli era stato appioppato un po’ a causa della chiave di casa che portava appesa al collo, sin da bambino, un po’ per le abitudini di intrattenere “svelti” rapporti con le tante brigantesse che lo attorniavano. Dapprima militare di carriera, poi guardia forestale, fu individuato dai Borboni quale soggetto capace di raccogliere il malcontento popolare, nonostante il suo carattere, difficile da imbrigliare. Il valore esibito nel combattere i Savoia gli favorì l’accesso alla nomina di Comandante delle Reali armi di Terra di lavoro e di Molise. Nel 1861 la regione diventò una sorta di inferno, ed i morti si contarono a centinaia. Il gen. Cialdini ordinò di far muovere truppe di Bersaglieri e di Carabinieri da Campobasso, assieme ai soldati del “XXXVI Fanteria”; però il Sannio resisteva, e gli uomini del brigante “Picuozzo” potettero 1/2 sfilare a Casalduni solo a fatica, esibendosi in una sorta di “trionfo” com’era in uso tra i condottieri dell’antica Roma. Un censimento dei morti ammazzati da Venafro a Termoli sarebbe difficile da redigere, tante erano le bande che occupavano i villaggi, proclamavano Governi provvisori, colpivano e poi si disperdevano. Certamente per i briganti era molto più facile combattere; per i soldati piemontesi un po’ meno a causa dell’equipaggiamento che rimaneva identico a quello invernale persino nel mese di agosto. Soltanto il corredo esterno (zaino, fucile e munizioni) pesava 30 kg. Fu il generale Pallavicini (Comandante delle truppe di Terra di lavoro, Abruzzi e Molise) che se ne rese conto e che provvide a risolvere il problema, alleggerendo l’armamentario. Uno dei briganti che più spadroneggiarono fu Carmine Crocco di Rionero in Vulture che, prima di sostenere la restaurazione borbonica, faceva parte dell’Esercito garibaldino. All’epoca del suo maggior splendore poteva contare su 2.180 uomini e su 340 cavalli con cui scorrazzava dalla 20a regione alla Puglia e dalla Campania alla Calabria. Il 4 luglio del 1863, in località Sferracavallo (dove, da Napoli, si arriva in Molise), una Compagnia del “XLV Fanteria” venne attaccata da 60 briganti facenti parte della banda dell’alleato Schiavone. Quei fanti caddero in un agguato che manco i giornali piemontesi poterono riuscire a nascondere. Altro gruppo famoso (1877) fu quello del Matese che prendeva il nome dalla zona posta tra la Campania ed il Molise.


18/11/2018

Claudio de Luca

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