Isernia Storia e altro

Isernia e i terremoti. Storia di una relazione pericolosa

Tra i molti primati che abbiamo noi che viviamo all’ombra dell’Arco di San Pietro vi è quello di insistere su una delle aree a maggior pericolosità sismica d’Italia (e dunque, ça va sans dire, d’Europa).
Se scartiamo le scosse d’importazione – nate fuori mappa e venute qui a far danni – sono due i sistemi di fa­glie che ciclicamente si attivano intorno a noi: uno è quello delle Aquae Iuliae (cd. AIFS), che sega diagonal­mente il venafrano (direzione NE-SW) fino al Matese campano; l’altro (cd. NMFS) è quello che interessa (con lo stesso andamento NE-SW) la pianura di Bojano e l’i­sernino. Quando periodicamente entrano in crisi, si sca­tena l’inferno: alla faglia del Nord Matese possono essere attribuiti i terremoti distruttivi del 1456 e del 1805, men­tre a quella delle Aquae Iuliae il terremoto del 1349 e, pro­babilmente, anche quelli del 346 e dell’847.
Già: più volte il terremoto ha distrutto Isernia; uno stesso numero di volte Isernia è stata ricostruita, uscen­done non ogni volta migliore della precedente.
Avere memoria di ciò che è stato pare serva a non ri­petere – come un criceto idiota nella sua ruota – gli errori del passato. Coi terremoti, questo è più difficile. Nell’a­strazione di un mondo perfetto, o anche solo in Giap­pone, si risolverebbe tutto cancellando gli abitati storici dalle fondamenta, sostituendoli con edifici sismicamente isolati. Ma qui, come per altre realtà appenniniche, queste soluzioni appaiono, appunto, una beffarda astrazione.
Il nostro centro storico, malgrado gli interventi di ri­pristino effettuati sui tanti immobili resi inagibili dal ter­remoto del 1984 (l’ultimo serio terremoto che ci ha col­piti), presenta ancora situazioni che – almeno all’occhio profano di chi scrive – solo per miracolo potrebbero reg­gere a una scossa, chessò, di magnitudo 6.0 (come quella che un paio di settimane fa ha fatto scempio di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto).
Viviamo under the volcano, con spesse fette di prosciutto sugli occhi e un santino di santa Barbara nel portafogli.
Raccolgo qui di seguito notizie intorno ai più forti tremuoti che, endogeni o esogeni al Molise, hanno tragicamente inciso sul volto della città e sulle spalle della gente che l’ha abitata; faccio questo con ovvio intento apotropaico: evoco il male per allontanarlo (mi metterei addosso anche pelli di animali e danzerei intorno ad un totem se servisse a qualcosa).




I due sistemi di faglia AIFS e NMFS, con gli epicentri dei terremoti che
hanno generato nel corso degli anni
(elaborazione grafica: Paolo Galli;
in Paolo Galli, Il fascino discreto dell'Archeosismologia, ArcheoMolise, gennaio/marzo 2010)


Partiamo dall’ 847, mese di giugno. Terremoti, ce ne sono stati anche in precedenza, ma di questo abbiamo notizie ver­gate in un codice (la Chronica Sancti Benedicti): dunque, a stretto rigore, è il primo terremoto storico in area moli­sana. Probabile epicentro, l’Alta valle del Vol­turno o il venafrano (la famigerata faglia delle Aquae Iu­liae). Leone Ostiense, citato da Ciarlanti, riferisce che, per effetto del sisma, Isernia fere tota a fundamentis corrueret; ne viene di­strutto l’impianto romano della città, conservatosi fino a quel momento. Gli isernini, non potendo rimuo­vere le macerie, le spianarono e cominciarono a rico­struire su queste (ecco spiegato perché, p. es., i resti dei templi sotto la Cattedrale si trovano a circa tre metri di profondità dall’attuale piano stradale).

Passiamo al 948. Il terremoto viene riportato da Gio­van Battista Ricci nella sua Cronaca sui Vescovi di Iser­nia (manoscritto in Archivio d’Apollonio) allorché si ri­porta che il vescovo Lando perì per causa del sisma, ri­manendo sepolto sotto le macerie della Cattedrale.

Interpolazione: tra il 948 e il 1120, terremoti lievi e meno lievi negli anni sono registrati per gli anni 981, 990, 1095 e 1117.

Passiamo al 1120: il 10 di novembre un violento ter­remoto ha epicentro nell’Alto Volturno. Il Chronicon riferi­sce danni a Vandra, in cui si ebbe chiesa crollata e «gente non poca uccisa».

Interpolazione: A detta di Baratta e Perrella, la terra trema negli anni 1125, 1134, 1135, 1139, 1140, 1158, 1180, 1198, 1216, 1223, 1227, 1231, 1248, 1273 e 1279

Passiamo al terremoto del 4 settembre 1293, con epi­centro in area matesina. Massimi danni a Bojano e Isernia. Proba­bilmente è a questo che si riferisce l’appunto conte­nuto nei Registri Angioini per l’anno 1294 secondo il quale, per i molti danni subiti dalla città, re Carlo concesse agli iser­nini il condono della terza parte delle tasse[1]. (vd. Mandato di Carlo II d’Angiò al giustiziere di Contado di Molise per la ri­duzione della terza parte delle collette a favore dell’Università di Isernia, 17 agosto 1294, Archivio di Stato di Napoli, Ufficio della Ricostruzione Angioina, Notamenti e repertori vari, arm. 1b).

Interpolazione: Perrella riferisce di episodi sismici non traumatici per gli anni 1309 e 1348.

Due sono i terremoti riportati per l’anno 1349: il 22 gennaio 1349, notte di san Vincenzo, fuit unua terremotus multum magnus. Epicentro – secondo il Catalogue of Strong Eartquakes in Italy – fu Isernia. Effetti stimati nel V-VI grado Mercalli.
Si replicò, col botto, il 9 settembre: questa volta con epicentro nell’area venafrana, lungo la faglia delle Aquae Juliae. Magnitudo stimata in 6.8 Richter.
A Isernia cadde distrutta la Cattedrale e quasi tutti gli edifici tra cui le case di Andrea d’Isernia e di Alferio (se­condo quanto si legge in una pergamena conservata nell’Archivio capitolare e trascritta da d’Apollonio). A detta di Gio:Vincenzo Ciarlanti (ma ci pare eccessivo) fu terremoto «terribilissimo che sentir si fece non nell’Italia solo, ma anche in Germania e nell’Ungaria»





Isosisme del «Gran terremoto napoletano» del 1456
(tratto da POSTPISCHL, Atlas of isoseismal maps of Italian earthquakes, 1985)

Veniamo al 5 dicembre 1456. Definito Gran terremoto napoletano, perché esteso in tutto il Regno, fu uno dei ter­remoti più forti mai registrati in Italia (magnitudo 7.0). Epicentro: l’area di Isernia, probabilmente la faglia NMFS. Fu sentito con intensità pari al grado X in più punti distanti, tra l’Abruzzo e l’Irpinia – ma si arrivò ad avvertirlo anche in Toscana e Sicilia. Probabilmente, si attivarono in sequenza più faglie appenniniche. Lo sciame sismico durò per diversi anni con alcune forti scosse che continuarono a flagellare il Centro-Sud d’Italia. È stato stimato che le vittime del terremoto furono, complessi­vamente, tra le 20.000 e le 30.000.
Baratta, per Isernia, riporta distruzione pressoché to­tale e cita un bilancio di circa 1200 morti. Figliuolo aumenta le vittime a 1500, su una po­po­lazione complessiva di 2035 persone (407 fuochi), quasi il 75%.
Nelle sue Memorie Historiche, Ciarlanti racconta di un altro vescovo (questa volta a nome Giacomo Montaquila) morto sotto le pietre della Cattedrale. Crollò anche parte della torre campanaria (l’Arco di S. Pietro). Siccome non ci facciamo mancare niente, al terremoto seguì un incen­dio che divampò in sei punti distinti della città, come ri­portato in altra pergamena sempre conservata nell’Archivio Capitolare e riportata da d’Apollonio.
Una curiosità: il grande terremoto del 1456 è avve­nuto “in nocte S. Barbarae” (tra il 4 e il 5 dicembre, ap­punto) e, per tradizione isernina, Santa Barbara protegge dai terremoti. Le due cose, tuttavia, non sono collegate. Pare infatti, che il patronato antisismico della santa (che in­fatti, a Isernia, si porta in processione il 6 giugno) sia nato in occasione del diverso terremoto del 6 giugno 1882 (D’Apollonio).

Interpolazione: Perrella, nella sua Effemeride, annota ter­remoti per gli anni 1561 e 1627. Danni diversi, ma siamo lontani dalla potenza sprigionatasi nel gran terremoto napo­letano.

Saltiamo all’anno 1688; altro tremuoto caduto in giu­gno, questa volta il giorno 5. L’epicentro è esterno al limes regionale (Sannio beneventano), ma i danni per Isernia sono consistenti. Vi è notizia, tuttavia, di una sola vittima: Alfonso Perrella nella sua Memoria storica sul tre­muoto del 5 giugno 1688 (1883) riferisce che ne Libro dei de­funti presso la Cattedrale, da lui consultato, sotto la ru­brica del 5 giugno si legge: «è morta Francesca, figlia di Bene­detto Ferritto quando fu questo gran tremuoto, che morse sotto le pietre. Parrocchia di S. Giovanni, se­polta alla ss. Fraternità.»
Questa volta il vescovo, quel Michele da Bologna autore delle Constitutiones Synodales Aesernienses (1693), non perisce nel crollo della Chiesa cattedrale, che pure subì danni, insieme con la torre campanaria. Nel 1692 ordina lavori di ristrutturazione del tempio, così come del pa­lazzo vescovile; per il restauro dell’Arco di San Pietro si aspettò invece fino al 1719.

Del 3 novembre 1706 è il cd. Terremoto della Maiella. «Gran tre­muoto negli Abruzzi che rovina molti paesi» (Perrella). La prima scossa si verificò alle 13.00 del 3 novembre (stima in 6.8 Ri­chter). Complessivamente le vittime furono circa 2.400. Sulmona fu devastata.
La seconda scossa avvenne alle 3.00 del 4 novembre: questa volta l’epicentro si spostò un po’ più a sud e dimi­nuì anche l’intensità, ma comunque fu anch’essa distrut­tiva: quelle località dove la prima scossa aveva provocato già danni gravi, ruinarono totalmente o parzialmente a causa di questa seconda scossa. Le zone maggiormente colpite furono intorno alla Maiella e quelle lungo il ver­sante chietino del Morrone.
A Isernia gli effetti furono nell’ordine dell’ VIII grado della Scala Mercalli: crollò l’interno della chiesa di San Francesco e rimase inagibile il convento di S. Maria delle Monache.

Interpolazione: Perrella registra terremoti in Molise ne­gli anni 1779 (eruzione esplosiva del Vesuvio, le cui ceneri arrivano a piovere fin su Isernia), 1788 e 1794.





Isosisme del «Terremoto di Baranello», 1805
(tratto da POSTPISCHL, Atlas of isoseismal maps of Italian earthquakes, 1985)

Ultimo terremoto distruttivo che la città ricordi, quello del 26 luglio 1805 (cd. terremoto di S. Anna) è sisma che colpisce gran parte dell’Italia centro-meridionale. Le vittime furono complessivamente 5573 e i feriti 1583. L’epicentro viene localizzato nella zona del Matese. Ga­briele Pepe, nel suo Ragguaglio del 1806, lo indica in Fro­solone, probabilmente perché il centro subisce danni for­tissimi e vede morti i ¾ della po­polazione. L’Atlante di Postpischl riporta invece come epicentro Baranello. Co­munque sia, epicentro molisanissimo.
Già dal 25 luglio vi erano stati fenomeni precursori e scosse sismiche di bassa intensità. Intorno alle 2:00 del 26, avvenne la scossa maggiore stimata in oltre 6 gradi della scala Richter, che durò ben 45 secondi. Fu devasta­zione e strage. In quello che siamo abituati a defi­nire cratere, scrive Pietro Colletta nella sua Storia del Reame di Napoli (1834), «…sorgevano sessant’una città o terre, albergo a quarantamila o più abitatori; e di tanto numero due sole città, San Giovanni in Galdo e Castropignano, benché fondate alle falde del Matese, restarono in piedi.»




«Carta topografica della Città di Isernia quasi tutta devastata dall'avvenuto terremoto del 26 luglio corrente anno 1805», del cartografo reale Luigi Marchese. Indicate in nero, le parti dell'abitato distrutte per effetto del sisma.
(tratto da AA.VV., Architettura e terremoto in Molise : atti del convegno del 2 luglio 2005 : ''Il Molise, il terremoto e la festa di S. Anna'' / a cura di Enza Zullo, 2009)


Gabriele Pepe scrive che la mattina del 27 luglio gli ottimati di Isernia informarono già il Re con una missiva: «Ieri sera 26 dell’andante luglio verso le due e mezza della notte cadde tutta la città dal tremuoto, a tal che buona parte dei cittadini sotterrati vivi dalla rovina ebbe a pigliar ricovero nell’aperta campa­gna... Isernia, Maestà, non è più Isernia, e le fabbriche tutte o son cadute o stanno per cadere al suolo». Fer­dinando (IV di Bor­bone) invia nella Provincia devastata l’avvocato fiscale Giannoccoli, per tracciare un primo bilancio dei danni e avviare la riscostruzione, che si av­vierà sotto Gioacchino Murat. Il 2 agosto 1805, il magi­strato annota mestamente: «Isernia ha sofferto la perdita di circa 2000 anime; ed una sola de­cima parte delle fabbriche esiste in piedi. (…) Questa città non ha che una sola strada nel mezzo ed una serie di edifizi lateralmente... Il tremuoto rovinò una metà della Città sola­mente, e propriamente quella che si eleva verso l’oriente, ossia la più prossima agli Appen­nini.» Per vero, la Carta topo­grafica della Città di Isernia quasi tutta devastata dall’avvenuto terremoto del 26 luglio corrente anno 1805 (del cartografo reale Luigi Marchese, pubblicata da Enza Zullo nel 2009) dà, nel forte contrasto del rosa e nero, una diversa distribu­zione dei danni, con enfasi piuttosto in senso nord-sud e non est-ovest, come dice Giannoccoli. Altra importantis­sima fonte documentale è il manoscritto dell’avvocato Pasquale Fortini, nostro concittadino e te­stimone oculare del sisma, pubblicato a stampa, a cura di Titina Sardelli, nel 1984: dà una precisa descrizione delle distruzioni subite dalla città, vicolo per violo, casa per casa. Risalendo la Piazza in direzione sud-nord, l’intensità dei danni cresce via via: da palazzi lesi «in picciolissima parte», come quello del notaio de Baggis, si ar­riva – oltre l’Arco di San Pietro, a constatare che «dal punto del suddetto campanile tirando in su verso gli Abruzzi, tutto quas’il resto della Città, che ne formava la maggior parte, l’è un ammasso di pietre, ve­dendosi solamente alcuni spezzoni di mura tutte fracassate, le quali maggiormente feriscono gli occhi dell’osservatore». Caddero la chiesa e il convento di S. Croce, la chiesa della Conce­zione, la chiesa e il mona­stero di S. Chiara, il convento di S. Maria delle Grazie e la Cattedrale di S. Pie­tro Apostolo. Fortini in­dica in 488 i cittadini e in 30 i fra­stieri morti per effetto del sisma. Il numero è vicino a quello di 600 che don Anto­nio Mattei trasse dai registri obituari della Cattedrale. «I cadaveri vennero sepolti, almeno in gran parte, nel baglio del rione Codacchio».
Come ha scritto Mauro Gioielli, il terremoto di S. Anna «provocò migliaia di morti, fece crollare innumerevoli edifici, sconvolse ampie aree geografiche; ma soprattutto incise profonda­mente nei sopravvissuti, segnati nell’anima e negli affetti, in tutto ciò che riguardava la sfera collettiva e personale. Per molti paesi, quel terremoto fu il “disordine esiziale”, il cháos che rese necessaria la riorganizzazione vitale.»

Interpolazione: Dopo il terremoto del 1805 la città as­sume una nuova faccia. Si fa presto, tuttavia, a dimenti­care di vivere sulla schiena di un animale solo addormen­tato. La situazione edilizia dell’Isernia all’avvio del secolo la traccia l’avv. Ernesto Maiorino nell’assise comunale del 25 gennaio 1915, all’indomani di un altro spaventoso ter­remoto, quello che distrusse Avezzano: «La situazione di questa città a ridosso di una lunga ma strettissima collina (…) per anni ha impedito che lo sviluppo edilizio potesse avvenire in una forma razionale. Con il progresso del tempo, si è avvertito il bisogno sempre crescente di nuovi locali per abitazioni (…) Che è accaduto? Nessuno avendo pensato a favorire l’ampliamento della città verso l’altipiano che circonda la stazione ferroviaria, l’abitato, non poten­dosi estendere in larghezza per difetto di spazio, è cresciuto in al­tezza. E così sono sorti tutti quei castelletti di tre e anche quattro piani che si vedono nelle vie e nei vicoli, vie e vicoli per la stessa ra­gione strettissimi. Oltre a ciò, si è costruito senza alcuna precauzione edilizia, con buona muratura, è vero, ma facendosi un deplorevole abuso di volte e di archi, di mensole sporgenti e di costruzioni assai pesanti anche nei piani più alti delle case. Sintetizzando (…) in una zona sismica principale come questa si è tollerata la costruzione di una città, per giunta sulle rovine ammonitrici del 1805, senza nessuna di quelle più elementari garenzie che le norme di edilizia asismica insegnano da molto tempo.»

Dal 1805 in poi, si registrano scosse negli anni 1806, 1807, 1811, 1812, 1825, 1831, 1841, 1849, 1853, 1856, 1861, 1873, 1874 e 1875 (tutte debitamente registrate da Perrella nella sua Effemeride)



Terremoto di Isernia, 1914. Telegramma di Salandra, Presidente del Consiglio dei Ministri, al sen. Falconi (ASCI)

Il 6 giugno 1882 si registrò una violenta scossa di ter­remoto – 5.3 Richter – con durata di 5-6 secondi, nelle prime ore del mattino. L’epicentro venne individuato nel versante sud-occidentale del Matese. Alla scossa prin­cipale seguirono repliche nello stesso giorno e nei giorni seguenti (7 e 8 giugno), con epicentro a Isernia, Monte­cassino, Venafro, Piedimonte d’Alife e Cantalupo nel Sannio.
Malgrado la forte intensità, il terremoto causò soltanto due vittime (un vecchio fu colpito da una pietra caduta dal campanile della chiesa di Pettorano e un mugnaio fu ucciso dal crollo di un mulino nella campagna di Monte­roduni).
A Isernia, restò seriamente danneggiata la Sottopre­fettura (l’ex convento dei Padri Cappuccini), Santa Maria delle Monache («il quartiere dei soldati») e molte case ripor­tarono lesioni.
Come detto già, «dopo questo triste evento, per voto, ad Iser­nia il 6 giugno di celebra la festa di Santa Bar­bara (D’Apollonio)»

Il Novecento si presentò subito tremando. La scossa (magnitudo 5.2) avvenne il 31 luglio 1901, intorno a mezzogiorno, con epicentro nell’area dei Monti della Meta (intorno a Sora). Per Isernia, non si conoscono te­stimonianze, ma Cancani in Notizie sui terremoti osservati in Italia durante l’anno 1901, pubblicato in appendice al ''Bollettino della Società Sismologica Italiana'') parlò, per la città, di effetti del VI grado della scala Mercalli (= leggere lesioni negli edifici), e riferisce di un boato che accompagnò la scossa.

Il 19 dicembre 1914 (un mese prima del terribile ter­remoto marsicano) viene registrata, per Isernia, un forte scossa (della quale tuttavia non vi è menzione nel Catalogue of Strong Earthquakes in Italy, 461 B.C. - 1997).
Fonti d’archivio (tra cui ASCI, b. 170 – f. 3418) danno notizia di uno sciame sismico – probabilmente con epi­centro locale – tra il mese di ottobre e dicembre 1914, con l’evento più significativo alle ore 4:57 del 19 dicem­bre.
Una relazione del 29 dicembre 1914 a firma dell’ing. Giuseppe Viti, tecnico comunale – documento allegato alla Delibera del C.C. n. 2/2015 – riferisce che «tutte le case in­distintamente sono rimaste depreziate da lesioni nuove, di diversa entità, verificatesi sia nei muri esterni che interni (…) Dove ho ri­scontrato qualche dubbio di lontano pericolo per le lesioni subite, per le quali il fabbricato non potrebbe resistere ad ulteriori scosse, ho consigliato agli inquilini di starsene lontani, finché non termini que­sto stato di movimento sismico. Per altre case ho provveduto a far puntellare qualche punto di esse dove il pericolo potrebbe manife­starsi per la gravità delle lesioni stesse.»
Da Roma furono inviati vagoni ferroviari per il rico­vero degli sfollati, e somme di denaro per i primi inter­venti.
Del terremoto isernino si discusse alla Camera nella tornata del 18 marzo 1915, allorché si rispose ad una in­terrogazione del deputato isernino Cimorelli così formu­lata: «per sapere con quali criteri fu negata la concessione della mo­ratoria per un paio di mesi alla città di Isernia, mentre il ceto dei commercianti versa in gravissimo dissesto a causa del terremoto, che tormenta quella città dal dicembre 1914.»

Allo sciame indigeno del dicembre 1914, seguì dram­matico il terribile terremoto di Avezzano (magnitudo 7.0!) del 13 gennaio 1915, che abbatté la Marsica e parte del Lazio meridionale causando 30.519 morti; altri 3000 vanno regi­strati nei mesi successivi come vittime indirette del si­sma: tutta l’area fu interessata da una eccezionale ondata di freddo, caratterizzata da intense nevicate e in­cessanti piogge che aumentarono il disagio delle popola­zioni e contribuirono ad aggravare i danni agli edifici.
A Isernia, gli effetti furono del VI-VII grado: la scossa causò lesioni nelle abitazioni, nelle scuole, nelle chiese. Il terremoto del 13 gennaio 1915 peggiorò notevolmente le condizioni statiche degli edifici della città già danneggiati dalla scossa del 19 dicembre 1914, che ne aveva reso di­versi inabitabili: nella chiesa dell’Immacolata Concezione crollò una volta; nell’edifico dell’Orfanotrofio Vescovile, nel palazzo Vescovile e nel Seminario i danni furono no­tevolmente aggravati.
A Largo Fiera gli sfollati trovarono ricovero in 15 ba­raccamenti provvisori, costruiti dal Genio Civile. Le ba­racche rimasero abitate fino all’agosto 1916, allorché un’ordinanza sindacale impose lo sgombero degli ultimi residenti, «inquantoché essendo le baracche sfornite di latrine e di scoli luridi, gli abitanti di esse spandono i loro escrementi sulla pub­blica via con grave danno delle decenza e della salute pubblica» (ASCI, b. 170 – f. 3418).





Terremoti del dicembre 1914/gennaio 1915.
Baraccamenti del Genio Civile montati a Largo Fiera (zona Parco della Rimembranza; si noti sullo sfondo Palazzo Orlando e, a sinistra, l'edificio scolastico che ospitava allora il Ginnasio ''Fascitelli'' e, attualmente, la Scuola Media ''Giovanni XXIII'')

Replica dieci anni più tardi. Il cd. Terremoto del Molise Occidentale: 24 settembre 1925, alle ore 14:33. Epicentro ad Acquaviva d’Isernia e inten­sità fino all’ VIII grado della scala Mercalli, in zona epi­centrale. Molti i danni: ad Ac­quaviva la scossa causò fen­diture gravi in tutte le abita­zioni e il crollo parziale di al­cune case; a Isernia caddero comignoli e rimasero grave­mente lesionate alcune abita­zioni; a San Pietro Avellana crollò la volta della cupola della chiesa e riportarono le­sioni moltissime case, fra cui alcune in modo grave; a Roccasicura caddero diversi co­mignoli e rimasero lesio­nate molte case. Fortunatamente, non ci furono vittime. La scossa fu intensa, accompagnata da un rombo, e durò (solo) 6 secondi. La sequenza si­smica si protrasse fino al 7 di ottobre.
Bendandi, in un articolo su ''Il Resto del Carlino'' del 29 settembre 1925, segnalò la particolare propagazione della scossa in direzione nord, verso Avezzano, dove fu forte­mente avvertita malgrado si fosse così lontano dall’epi­centro; sempre secondo il famoso pseudoscienziato, que­sto terremoto originava dalla stessa faglia che aveva sca­tenato il terremoto del 1805.

Il Terremoto Irpino del 23 luglio 1930 (che in zona epi­centrale, fu – al solito – distruttivo causando oltre 1000 morti), a Isernia venne avvertito con effetti del III-IV grado, sensibilmente minori di quelli del successivo ter­remoto del 1980.

Del 1933 è il Terremoto della Maiella. La scossa distrut­tiva avvenne il 26 settembre, all’alba; fu preceduta da altre due scosse minori. Complessivamente ci furono 12 morti. Nonostante i numerosi crolli, il numero delle vittime fu contenuto proprio perché la maggior parte della popola­zione aveva abbandonato le case per le scosse premoni­trici.
Per Isernia, mancano descrizioni. Nel Bollettino si­smico, curato da Cavasino (1935), l’intensità della scossa fu va­lutata di effetti pari V grado della scala Mercalli (caduta di oggetti).

Stiamo sereni – si fa per dire: in mezzo cade una Guerra mondiale, e per noi un bombardamento altret­tanto distruttivo – per trent’anni.
Nel 1962, altro terremoto in Irpinia, epicentro: Ariano Irpino (AV): la prima scossa fu sentita il 21 agosto in­torno alle 18:00. Dopo un paio d’ore ci furono due scosse violentissime, avvenute a 10 minuti di distanza l’una dall’altra. Questa volta, due soltanto le vittime.
A Isernia, furono riferiti effetti intorno al V grado Mercalli.



Terremoto del 1984. Puntelli a Piazza Celestino V (Ramunno)


Da qui, in poi, per me è storia contemporanea. Il deva­stante terremoto irpino del 1980, che altrove pro­dusse 2.914 morti, 8.848 feriti e 280.000 sfollati, a Isernia venne sen­sibilmente avvertito (io c’ero, avevo 8 anni, e lo ricordo perfettamente).
Spavento, ma nessun serio danno. A rimanere lesio­nato (e inagibile) è il solo Palazzo San Francesco.

Altro epicentro quattro anni dopo. Per Isernia, l’ultimo terremoto cui va la memoria, quando si parla di terre­moto.
Due le scosse, con epicentro i Monti della Meta (San Donato Val di Comino, appena oltre il confine regionale): il 7 maggio 1984 (alle ore 19:50, magnitudo 5.9) e l’11 mag­gio (ore 12:41, magnitudo 5.0). Sette, complessiva­mente, i morti. Crolli di intere abitazioni – per fortuna senza vit­time – si ebbero a Colli a Volturno (300 senza­tetto), Ac­quaviva e Pizzone.
A Isernia «la popolazione, in preda al panico, si è riversata fuori dal centro abitato. A tarda notte, la Protezione civile traccia un primo, parziale bilancio: i feriti, in tutto, sarebbero una quaran­tina, di cui alcuni in gravi condizioni.» [la Repubblica, edizione dell’ 8/5/1984].
Oltre cinquecento abitanti del centro storico rimasero senza tetto; i danni maggiori si ebbero qui, nella parte an­tica, dove risultarono lesionati e inagibili il 70% degli edi­fici. A dire dell’ANSA (Notiziario italiano del 9/5/1984) la scossa causò la caduta della croce di bronzo posta in cima alla cattedrale dopo la ricostruzione del 1815.
Si ebbero 20 casi di crolli parziali di tetti e solai. Altri abbattimenti furono stabiliti con ordinanza ed eseguiti in via precauzionale. I senzatetto finirono in due roulotto­poli alle Piane e a San Lazzaro, dove molti poi rimasero a vivere negli appartamenti di nuova costruzione. Per ef­fetto del sisma, il centro storico venne pressoché abban­donato. Corso Marcelli, il Mercato e le altre piazze ven­nero puntellate con travi di legno, che rimasero per anni. La vasta ristrutturazione edilizia (sulla cui bontà, il tempo sarà giudice) ha riempito il centro storico di pesanti tetti in cemento armato, reti elettrosaldate e intonaco le fac­ciate prima in pietra (per un raffronto, vd. le molte e belle fotografie presisma pubblicate da Valente in Nascita e crescita di una città). Gli interventi di miglioramento anti­sismico degli edifici sono ben documentati nel volume di Ramunno, allora responsabile dell’ufficio tecnico comu­nale.