Vivere 700.000 anni fa: il sito paleolitico di Isernia La Pineta
Ventisei anni fa la Rivista americana Nature dedicava la copertina al giacimento preistorico di Isernia La Pineta. La novità della scoperta consisteva nella gran quantità di reperti, ma soprattutto essa contribuiva, in modo determinante, a sostenere l'età remota del primo popolamento del nostro continente.
Il giacimento paleolitico di Isernia La Pineta è una delle più complete testimonianze della storia del popolamento umano dell'Europa. I dati emersi con gli scavi sistematici e con lo studio interdisciplinare, attivati a partire del 1978, hanno consentito di ricostruire nel tempo, anche negli aspetti particolareggiati, la vita e l'ambiente naturale in cui visse l'uomo circa 700.000 anni fa.
Gli interventi di ricerca, valorizzazione e divulgazione, tuttora in corso, sono stati realizzati con il supporto delle Istituzioni locali (Provincia, Regione, Comune) e in stretta collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica del Molise e l'Università degli Studi di Ferrara, sotto la direzione scientifica del Prof. C. Peretto. Ciò ha contribuito allo sviluppo di iniziative ad ampio respiro che hanno favorito l'internazionalizzazione delle attività e la possibilità di creare un polo di ricerca locale che oggi trova un suo valido supporto nel Centro Europeo di Ricerche Preistoriche, Associazione per la ricerca scientifica Onlus, istituito nel 2001.
L'attenzione prestata a questo giacimento risiede anche nella sua importanza per lo studio della cronologia del Quaternario del Bacino Mediterraneo. Infatti, esso contribuisce in modo determinante alla ricostruzione del paleoambiente floristico e faunistico del Pleistocene. Di particolare significato sono le indagine geomorgologiche, stratigrafiche, pedologiche (AA.VV., 1983; Cremaschi, Peretto, 1988), paleontologiche (Sala, 1996) paletnologiche (Peretto et al., 1994) e palinologiche (Accorsi 1985) che hanno potuto ricostruire in dettaglio l'antico ambiente naturale, anche per quanto riguarda gli aspetti geomorfologici del territorio.
La realizzazione degli interventi di esplorazione è stata possibile grazie alla costruzione ed inaugurazione, nel 1999, di un padiglione degli scavi, di circa 700 mq, a copertura dell'area da esplorare, che ha sicuramente facilitato le operazioni di ricerca, permettendo anche la continuità delle stesse per diversi mesi all'anno.
Nelle ultime campagne di scavo, svoltesi per lo più nei mesi estivi, ci si è concentrati a estendere la messa in luce dell'archeosuperficie più importante e più ricca in assoluto di materiale archeologico, denominata 3a, su cui sono evidenti le testimonianze della frequentazione antropica dell'area e dello sfruttamento delle risorse ambientali per scopi alimentari. La grande quantità di resti ossei animali (bisonti, elefanti, rinoceronti, orsi, ippopotami, cervidi), associata ai manufatti litici, in selce e calcare, dell'ordine delle migliaia, distribuita su un'area, fino ad oggi esposta, di circa 200 mq, rende chiara la complessità dell'interpretazione del contesto e sottolinea la necessità di una continuazione degli interventi per una sua definitiva comprensione.
La distribuzione di specie faunistiche vede una predominanza di resti di bisonte (Bison schoetensacki), seguiti da quelli di rinoceronte (Stephanorhinus hundsheimensis), ippopotamo (Hippopotamus cf. antiquus), orso (Ursus deningeri), elefante (Elephas Palaeoloxodon antiquus)), di cervidi quali il megacero (Megaceroides solilhacus), il cervo (Cervus elaphus cf. acoronatus), il daino (Dama dama cf. clactoniana), il tar (Hemigratus cf. bonali).
L'industria litica rinvenuta in associazione ai resti faunistici si caratterizza per la netta dicotomia degli elementi in calcare ed in selce, sfruttati per l'ottenimento di prodotti quali schegge, nuclei e debris.
Le testimonianze individuate documentano una elevata conoscenza e padronanza del territorio come per la raccolta dei materiali litici utilizzati per la scheggiatura e per la pratica dell'attività venatoria. La successiva macellazione e quindi lo sfruttamento delle carcasse animali sono comprovate dalle tracce presenti sui reperti ossei (fratture intenzionali, strie dovute all'attività di taglio dei reperti litici) e dall'abbondanza di schegge in selce che presentano sui bordi e sulle superfici tracce inequivocabili dell'attività di taglio di masse carne. Tutto il complesso di evidenze attesta l'adozione ben consolidata da parte del gruppo umano che ha abitato il bacino di Isernia di precise strategie comportamentali finalizzate all'ottimale sfruttamento del territorio e delle risorse disponibili per la propria sopravvivenza. Le stesse archeosuperfici, infatti, non rappresenterebbero altro che interfacce differenti di una fase insediativa unitaria che la sequenza delle modalità del suo seppellimento fanno attribuire erroneamente a livelli archeologici distinti sul piano cronologico.
L'elemento di unione delle archeosuperfici è rappresentato dagli ambienti umidi presenti nell'area in quel tempo, contraddistinte da formazioni travertinose in parte emerse ad un andamento discontinuo, in parte lineare, caratterizzate spesso da un progressivo accrescimento orizzontale e verticale. Questo ultimo aspetto, dovute alla presenza dell'acqua e al suo scorrere, è documentato dalle sezioni esposte e dai rilievi di scavo che evidenziano strutture tipiche legate a questo fenomeno. È probabile che un reticolo, più o meno vasto e disomogeneo, di elementi travertinosi emersi caratterizzasse quindi l'intera area, definendo in taluni casi piccoli ambienti umidi (laghetti) tra loro comunicanti. Lo scavo ha posto in luce una grande quantità di materiale litico sulla superficie allungata e stretta di uno di questi rilievi travertinosi attorniati dall'acqua. I reperti sono molto freschi, per lo più rappresentati da schegge ottenute con percussione diretta o su incudine (Peretto, 1994), con superfici caratterizzate da frequenti tracce connesse con l'attività di taglio della carne. Su questa area i resti ossei sono molto scarsi; essi invece sono molto frequenti ai suoi lati, dove l'acqua lambiva il rilievo stesso e dove diventano meno numerosi i materiali in selce.
La frequentazione stabile dei rilievi travertinosi contornati dall'ambiente acqueo offriva probabilmente la necessaria sicurezza e protezione al gruppo umano. L'esplorazione del territorio circostante comportava la possibilità di recuperare carcasse o meglio parti di carcasse animali a scopo alimentare, senza escludere azioni di charognage. Esse venivano trasportate in queste aree decisamente più sicure degli spazi aperti della prateria per essere ulteriormente depezzate e sfruttate, anche con la fratturazione delle ossa per il recupero del midollo. La loro altissima frequenza nell'ambiente umido a ridosso del rilievo (peraltro cosa che era già stata osservata fin dalle prime fasi della ricerca; Peretto et alii, 1983) presentava numerosi vantaggi, in particolare l'attenuazione degli odori della putrefazione.
Nell'ottica di uno sviluppo futuro delle ricerche l'area ed il Parco sono stati attrezzati con strutture logistiche che consentono di svolgere le attività in modo continuativo con la volontà di ampliare il quadro delle conoscenze relative all'importanza del sito, a creare continui e duraturi rapporti di scambio di professionalità a livello nazionale ed internazionale, a porre le basi per il coinvolgimento duraturo di giovani studenti, laureati e dottorati del territorio, a favorire l'interdisciplinarietà , a supportare l'esigenza di divulgare tali conoscenze in ambito scientifico, attraverso pubblicazioni su riviste e monografie, elaborazioni di tesi, opuscoli scientifici e didattici.
Il testo è stato preso da: Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Molise